martedì 18 dicembre 2007

Foto scolari con Carmine Chinni, medaglia d'oro


Gli alunni della maestra Rina si sono incontrati con Carmine Chinni, Fante nella Prima Guerra mondiale, uno degli ultimi testimoni della Grande Guerra e che ha raccontato le sue vicissitudini. Gli scolari hanno potuto intervistarlo e capire i patimenti dei numerosi soldati inviati al fronte. Qui sotto sono stati raccolti i suoi ricordi......

sabato 15 dicembre 2007

Fante Carmine Chinni, medaglia d'oro Prima guerra mondiale

Intervista a nonno Carmine, 93 anni, combattente e reduce nella 1a Guerra Mondiale

Il giorno 23 febbraio 1989, siamo andati ad intervistare il signor Chinni Carmine, un anziano ex-combattente di 93 anni, che ci ha raccontato la sua vita vissuta nella 1a Guerra Mondiale.
Egli, apparteneva al battaglione n. 135, era un fante.
Partì, a 17 anni, il 24 maggio 1915.
Ha combattuto nel Trentino al Pasubio (a m. 1800 d’altezza), al Tonale e alla Presanella.
Ci ha detto che quella fu “la guerra dei somari”.
Egli e tutti gli altri soldati camminavano nelle campagne.
Ogni soldato aveva sulle spalle minimo 40 kg di roba.; i cavalli trainavano su degli assi di legno, le “artiglierie da campagna”: le armi più potenti di allora!
Dopo che i nostri persero a Caporetto, lui ed altri soldati tornarono sul fiume Isonzo.
Fu ferito ad una gamba, mentre combatteva a 3 metri dalla “trincea nemica”, da un ferro che gli entrò da una parte e gli uscì dall’altra: fu portato all’ospedale militare di Verona.
Dal fiume Isonzo il battaglione n. 135 arrivò al confine dei Pirenei (montagne che separano la Francia dalla Spagna).
In quel periodo faceva freddo, ogni soldato aveva scarpe di legno, tre coperte e un sacco a pelo, con dentro lana di pecora.
Dormivano all’addiaccio.
La neve lasciava scottature che il vecchio Carmine ci ha fatto vedere: ha le gambe e i piedi congelati con scottature di secondo grado.
I soldati avevano dei pidocchi molto grandi (quasi come un pollice) che si attaccavano sulla schiena e succhiavano il loro sangue. Allora ai soldati si toglievano la camicia, strisciavano la schiena sulla neve e i pidocchi dimagrivano.
Quando si rimettevano la camicia, i pidocchi erano più affamati e arrabbiati, così morsicavano più forte.
Carmine aveva anche il compito di mettere le “micce” nelle gallerie per fare le “feritoie” e spiare il nemico.
Ogni tanto il suo battaglione lanciava un “pallone aerostatico” per controllare gli austriaci. Un gruppo di fanti che si trovava su un pallone fu dato per disperso: chissà dove andò a finire….!
Carmine Chinni ha ricevuto la medaglia d’oro e il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto”.
quando fu firmato l’armistizio a Vittorio Veneto, il 4 novembre 1918, per Carmine (ma non solo per lui) fu un giorno fantastico!
Carmine voleva incontrare suo fratello che era partito un anno dopo di lui.
Carmine Chinni è stato un “Eroe” con la “E” grandissima. Ha conosciuto direttamente persone molto importanti: il Re, Vittorio Emanuele III, Francesco Baracca, Luigi Cadorna e Armando Diaz.
Egli ci ha detto che i soldati scavavano i “camminamenti” profondi circa m. 2.30 che venivano coperti da sacchi pieni di terra (terra-pieno) e tralicci di quercia.
Carmine scoprì che un camminamento giungeva “fuori linea”. Un giovane ogni giorno lo attendeva in quel posto e gli dava un giornale per sapere cosa succedeva in altre zone militari.
Le trincee austriache (a 3 piani) erano fatte con fili spinati carichi di corrente elettrica.
Gli italiani però riusciva a costruire delle pinze molto lunghe anti-corrente con i manici in legno.
I soldati in guerra restavano a combattere duramente anche per una settimana intera, spesso senza cibo.
Per mangiare ricevevano una fetta di polenta quasi ghiacciata: freddissima, e un tozzo di pane.
C’erano dei soldati scelti ed addestrati nei “campi minati” che lanciavano le “mine” (bombe a mano) con molta destrezza e sveltezza.
Molti soldati persero la vita perché la bomba scoppiò nelle loro mani uccidendoli.
Ogni “mina” faceva esplodere 30 schegge.
Ogni soldato riceveva 12 “mine” al giorno.

Episodio commovente da un soldato austriaco.
Non si volevano uccidere perché tutti e due avevano una famiglia che li aspettava…
allora i due soldati (uno italiano e uno austriaco) fecero amicizia: ogni giorno di nascosto si incontravano, si scambiavano e fumavano una sigaretta.

mercoledì 5 dicembre 2007

Prima Guerra mondiale nei ricordi di un ex combattente

Intervista a nonno Nicola Evangelista sulle vicende della Prima Guerra Mondiale

Il mio bisnonno Nicola Evangelista di 92 anni, ex combattente nella 1a Guerra Mondiale nel Reggimento di Fanteria n. 34, ha partecipato a tutto il conflitto mondiale combattendo di più sulla linea dell’Isonzo: era un soldato addetto al lancio delle “mine” nei “campi minati”. Mi ha detto che c’erano diversi tipi di bombe a mano ed anche per aeroplani.
Le bombe a mano avevano un’apposita fascetta che serviva da sicurezza : era un pezzetto di ferro lungo e sottile che dopo averlo sfilato sganciava la sicura.
La bomba si teneva con la mano destra e con l’altra si levava la sicura che si tirava prima il braccio indietro poi in avanti: la bomba si staccava dalla sicura poi si ritirava il braccio per il lancio finale.
I soldati addetti alle bombe, prima di lanciarle dovevano contare da uno a due, al tre la bomba scoppiava.
C’erano le “signorine” (bombe a mano) che avevano una stecca e un velo di stoffa, esse avevano lo stesso funzionamento delle bombe a mano, solo però che bisognava tenerle per il bastoncino.
C’era un altro tipo di “signorina”, quella da fucile. Dentro al fucile si metteva il “cartoccio” (pezzo di carta), un po’ di polvere esplosiva, e infine la “signorina”, che teneva non un bastoncino, ma due: uno davanti che colpendo rientrava ed esplodeva; il bastoncino di dietro teneva un pezzetto di calamite per attaccarsi al fucile: la polvere come esplodeva faceva schizzare la bomba.
Le bombe degli aerei erano di due tipi: uno ad orologio e teneva un pulsante che azionava non solo l’orologio, ma anche la bomba; l’altro tipo aveva lo stesso funzionamento della signorina (bomba a mano da fucile).
I soldati avevano l’attrezzo picco e pala per fare le buche.
Il mio bisnonno ha scavato anche i “camminamenti” (trincea con terra-pieno).

giovedì 29 novembre 2007

Foto della famiglia reale di Casa Savoia

Al centro della foto Vittorio Emanuele III con la moglie Elena di Montenero, le figlie, e i nipotini. Il figlio del re, Umberto II, è quello all'estrema destra, egli sarà il futoro "re di maggio" per aver assunto la corona d'Italia solo per un mese prima di essere esiliato a Cascais.

domenica 25 novembre 2007

figli della lupa, piccole italiane, balilla

Il Fascismo nei ricordi di nonna Edda

Le divise che indossavano le persone per fare la marcia su Roma ogni 24 maggio erano regalate dal governo.
I bambini piccoli che andavano a scuola erano chiamati “figli della lupa”, i bambini più grandi erano chiamati “balilla”, le bambine venivano chiamate “piccole italiane”; io ero la caposquadra di un gruppo di piccole italiane. La maestra mi aveva dato un diploma e una croce al merito di bronzo con scritto “gilla, italiano, littorio” e con un fiocchetto tricolore. I figli della lupa vestivano con: un calzoncini corto nero, una camicia blu, on un foulard blu e una bandierina tricolore; i balilla vestivano più o meno come i figli della lupa. Le piccole italiane vestivano con una gonna di cotone a pieghe e una camicia bianca con berretto.
Le famiglie che avevano sette figli non pagavano le tasse e l’estate, alla chiusura della scuola, li mandavano o al mare a Francavilla o in montagna, e non pagavano i libri.
Quando il governo aveva bisogno di fondi, mandava il maresciallo casa per casa e le persone spontaneamente dovevano donare la fede e le pentole di rame. Il sabato fascista non si andava a scuola e non si lavorava, ma ci si dedicava all’educazione fisica.
Per comperare i viveri c’era bisogno di una tessera che possedeva ogni individuo.

giovedì 22 novembre 2007

Seconda guerra mondiale: servizio militare

Nonno Angelo e il servizio militare a far la guardia alla casa del Duce

Quando scoppiò la seconda Guerra Mondiale, io avevo 17 anni; anche se non ho partecipato, sono stato obbligato a fare il servizio militare, prima a Bologna, poi a Faenza.
Ogni giorno ci facevano marciare per ben 6-8 km, con le armi a tracolla e un cappello in testa.
Anche il pasto era umile: un tozzo di pane, un mestolo d’acqua calda e un pezzetto di carne surgelata (congelata).
Poi sono andato a Predappio, con altri commilitoni a far da guardia alla residenza del duce, mentre lui zappettava tranquillamente l’orto.
Il viaggio di ritorno fu molto difficoltoso: passai da Predappio a Foggia in 12 giorni di cammino.
Con gioia raggiunsi il mio paese.
Però, l’ho trovato tutto bombardato; anche la fame era un problema da affrontare. Preso il mio ciucchino, mi diressi verso Campomarino per prendere riso, sale e vino da tre treni distrutti.

martedì 20 novembre 2007

La scuola fascista

Che severità nella scuola fascista, secondo le testimonianze del nonno di Davide

A scuola le maestre erano molto severe e se non ubbidivamo, ci davano bacchettate sulle mani o addirittura in testa oppure ci dovevamo inginocchiare sopra i ceci. Il giovedì non si andava a scuola, il sabato invece, che era festa del fascismo, indossavamo divise diverse e andavamo a fare gli esercizi ginnici. Gli uomini vestivano con calze color grigio o verde, camicia nera, pantaloncini grigio-verde e scarpe nere, invece le donne avevano le gonne nere, le scarpe nere e la camicia bianca.
La scuola durava dalla mattina fino alle due e poi tornavamo il pomeriggio fino alla sera.
Durane il viaggio in treno avevamo una specie di aratro che distruggeva la ferrovia per non far passare il nemico.

sabato 17 novembre 2007

Gli scolaretti della maestra Rina


Una delle tanti classi elementari della maestra Rina....
I suoi numerosi alunni sono stati tutti eccezionali ed ora, che è andata in pensione, se li ricorda con affetto.

venerdì 16 novembre 2007

Fame in tempo di guerra

Racconta nonno Guido Russo che pativano tutti la fame in tempo di guerra, quando un litro d'olio costava due mesi di lavoro

«Nel periodo di guerra non era facile trovare del cibo. Infatti era stato dato ad ogni componente della famiglia una tessera sugli alimenti in cui c’era scritto che ciascuno doveva ricevere una determinata razione di cibo. Visto che era molto difficile trovare da mangiare, spesso ero costretto ad andare a comperare dei viveri al mercato nero. Lì però il cibo costava molto, ad esempio 1 l. d’olio costava 1000 £, l’equivalente di due mesi di lavoro. Costretti da questa situazione, ce ne andammo in Abruzzo, anche perché era una regione lontana dalle mire della guerra. Ci trasferimmo a Francavilla e qui, fortunatamente, i viveri costavano meno. Un giorno, però, arrivarono i tedeschi a Vasto e bombardarono villette e case. Venuti a sapere di questa situazione, ce ne andammo. fu un viaggio lungo e faticoso. Gli inglesi avevano mitragliato le locomotive e interrotte tutte le vie di comunicazione. ci trasferimmo per un po’ di tempo da una famiglia di contadini. Dopo aver superato mille difficoltà riuscimmo a tornare a Torino ma, con nostra sorpresa, la trovammo distrutta e per di più mio fratello era stato ucciso. eh sì, la guerra non si dovrebbe fare mai perché è il popola che ne paga le conseguenze e solo pochi che si approfittano degli altri si arricchiscono.

giovedì 15 novembre 2007

Sfollati a Torino

Gli sfollati a Torino nei ricordi di nonno Guido (7)

Ero a Torino e avevo nove anni quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Vivevo in una famiglia di undici persone e ogni mattina avevo il compito di andare a comperare il pane per tutta la famiglia. Ogni volta che andavo il panettiere mi dava un pezzo di pane in più così lo mangiavo per la strada. Quando una persona finì il pane datogli, cercava sempre di mangiare quello di un altro. Quando sono cominciati i bombardamenti, mio padre siccome conosceva molto bene l’Italia, decise di venire in Abruzzo perché era un posto riparato e non molto bombardato, ma anche perché si trovava più cibo.
Il viaggio durò 2 giorni e ci furono molte difficoltà. Quando arrivammo ci stabilimmo a Francavilla. Dopo l’armistizio cominciò la guerra di liberazione. Francavilla fu bombardata, così fummo costretti a ritornare a Torino. Il viaggio di ritorno durò 33 giorni e fu molto faticoso. Quando arrivammo trovammo tutto distrutto e i tedeschi mi presero con molti altri ragazzi e mi portarono a costruire dei fossati per nascondere i cannoni. Siccome si accorsero che ero più piccolo egli altri, avevo dei privilegi: andare e venire in qualsiasi momento della giornata.

lunedì 12 novembre 2007

Arruolato con i tedeschi, Armando si ritrova fuggiasco in Albania e Macedonia

Nonno Armando e le sue vicissitudini in Albania e Macedonia durante il secondo conflitto mondiale (8)

Nel settembre del 1940 stavo in Albania per la guerra contro i greci. Il 28 settembre del 1943, ci fu la resa dell’Italia e io mi arruolai con i tedeschi e facevo l’autista. Il 22 dicembre dello stesso anno, stavo in Macedonia con tanta neve e ghiaccio; i tedeschi mi chiamarono al giuramento per Hitler, altrimenti mi avrebbero mandato al campo di concentramento. Fui quindi costretto a giurare e così feci il servizio con i tedeschi in Albania e Macedonia, impegnato nei trasporti.
Il 26 agosto del 1946 feci una discussione con un sottufficiale tedesco che mi mise di guardia, feci il turno di notte e mi misi a dormire nel camion. Aspettai che il sottufficiale smontasse dal servizio e chiamasse un altro tedesco; all’una di notte gli lasciai il moschetto e gli dissi che avevo finito il servizio. Lì vicino c’era la stazione ferroviaria. Salii su un vagone e mi nascosi per non farmi vedere dalle guardie che controllavano il treno. Il treno partì: era diretto a Scoppia in Macedonia. Mi fermai a Scoppia per due giorni: giravo per la città con la fascia di riconoscimento tedesca per non farmi riconoscere che ero scappato.
Il 28 agosto salii su un treno sul quale c’era la polizia tedesca. Scesi a Bitoli (Macedonia) e volevo andare al paese dove avevo fatto il giuramento tedesche perché lì c’erano degli amici, ma avevo i tedeschi alle calcagna, allora decisi di arruolarmi nei partigiani della “Brigata Macedone” e feci un altro giuramento. sono rimasto 15 giorni a combattere tra le montagne contro i bulgari e dopo sono scappato. dopo due-tre giorni fui catturato dalla polizia tedesca e incolpato di spionaggio bulgaro. Mi misero in galera a Bitoli in una camera scura con tre amici. Dopo 8 giorni ci fecero uscire, pensammo che ci fucilassero, invece ci fecero salire su una camionetta e mi riportarono in Albania. Mi riportarono al comando dove ero scappato, mi fecero un giorno e mezzo di interrogatorio e rapporto e mi dissero che il giorno dopo sarei stato fucilato e mi rimisero in carcere.
Il giorno dopo mi misero a scavare, insieme ad altri, le buche per mettere i morti. Stavamo tutti a scavare mentre i tedeschi ci sorvegliavano con il mitra puntato. Verso le 11 dissi ad una guardia che dovevo andare al bagno. Mi disse di andare nel vicino campo di granoturco. Approfittai di una sua distrazione e mi diedi a una fuga disperata. fui fortunato perché lì vicino c’era un ponte di un canale; vi passai sotto e più in là trovai la boscaglia. Arrivai al ponte più alto del bosco e in lontananza vidi una casa di legno. Dalla casa uscivano delle persone con i mitra spianati che mi accerchiarono; pensai che mi avrebbero ammazzato, invece riconobbi che erano partigiani albanesi e gridai di essere italiano, mi domandarono da dove venivo e dissi che ero scappato dai tedeschi. Mi fecero entrare nella casetta dove c’erano altri partigiani e mi fecero mangiare pane e mosto cotto. Mentre mangiavo mi fecero vedere un moschetto arrugginito e mi dissero che alla sera dovevamo andare ad attaccare i tedeschi. Ma quando i tedeschi passarono i partigiani ebbero paura e non spararono. Era il 25 settembre del 1944. Dormivamo per terra, faceva freddo e dovevamo camminare tra le montagne. Mi facevano male le gambe e non ce la facevo più. Allora mi rifugiai in un piccolo paese di montagna nella casa di un albanese che allevava pecore. Mi davano da mangiare fagioli, ma erano tutti acqua e sale e mentre mangiavo, la moglie del partigiano mi ammazzava i pidocchi con le mani. Lì conobbi un italiano toscano che si trovava in quel posto da un anno, decidemmo di scappare insieme. Dissi al padrone che andavamo a fare una passeggiata sulle montagne e me ne andai. Camminammo lungo un fiume e trovammo delle persone gentili che ci diedero da mangiare pane e granturco. La notte trovammo ospitalità in una casa vicina a questo fiume. Attraversammo il fiume a nuoto. arrivammo in un altro villaggio albanese dove non c’era la luce, ma avevano una caldaia che gli doveva procurare la corrente ma gli albanesi non erano in grado di farla funzionare. Insieme al mio amico la riparammo e così demmo la luce in quel piccolo villaggio. Ma non restai neanche in quel paese e, dopo otto giorni, me ne andai da solo perché il mio amico non volle venire con me.
Mi riempii le tasche di castagne e me ne andai verso la Macedonia. Risalivo la montagna solo con un paio di scarpe da ginnastica (?) e incontravo albanesi che scappavano gridando: «ci ammazzano!». Mi dissero di non proseguire perché mi avrebbero ammazzato. ma io non gli diedi retta e continuai a camminare verso la Macedonia. Vedevo le case che bruciavano. due cani mastini si avventarono su di me ma li uccisi con un bastone. Sentivo sparare. Non sapendo dove andare mi rifugiai in un pagliaio in mezzo al granturco. Sentivo i colpi di fucile da ogni lato. Verso l’una di notte una mucca si mise a mangiare vicino a me, mi misi a piangere.
Trovai un cappellino albanese e me lo misi in testa, chiesi a uno slavo la strada per Scoppia e ci incamminammo insieme. Per la strada vedevo mucchi di morti ammazzati dagli albanesi, incontrammo due slavi che mi domandarono se ero albanese, gli dissi di no e mi dissero di buttare il cappello.
Arrivato a un paese vicino, chiesi di poter lavorare. Accettarono di farmi lavorare in un’officina. Mi facevano scaricare in mezzo alla neve, faceva tanto freddo. Un giorno vidi arrivare i partigiani che mi avevano ospitato nella casetta di montagna. Mi raccomandarono di non farmi vedere dal comandante altrimenti mi avrebbe punito e io cercai di stargli sempre lontano.
Da quel paese mi trasferirono a Scopia per inviarmi in un campo di concentramento. Io sentii tutto e scappai di nuovo in mezzo alla neve, con le scarpe rotte. Ritornai verso l’Albania. Avevo i capelli e i baffi ghiacciati, attraversai il fiume con un metro di acqua glaciale credendo di morire, e invece non ho preso neanche un raffreddore.
Andai a Cossopolo dove c’era la ferrovia. Un giorno scoppiarono molte bombe e morirono molti italiani. Per mia fortuna proprio quel giorno non ero lì a lavorare perché avevo detto di sentirmi male. Mi misero a lavorare in un’officina dove incontrai un italiano che mi conosceva e che credeva che i tedeschi mi avessero ammazzato.
Il capo officina era slavo, a un tedesco dava il sapone per lavarsi e a noi no. Allora un soldato di Brindisi gli diede 3-4 pugni; un romano aveva rotto la macchina che doveva aggiustare; io avevo risposto a un superiore e, così, ci presero e ci portarono in carcere.
Prima di entrare in carcere ci tagliarono i capelli: ci rimanemmo 7 giorni e 7 notti. Il 7 maggio del 1945 ci fu l’armistizio. Spararono i cannoni. Ci portarono davanti al loro giudice che ci interrogò; fuori ci aspettavano i soldati per spararci, ma il maggiore fece ammazzare il soldato romano e liberò me e il brindisino.
Tentammo la fuga e incontrammo i tedeschi. Il 25 luglio ci mandarono a piedi a Scoppia per rimpatriare. Salii su un treno che mi riportava in Italia. arrivati a Bologna mi prese una febbre che mi costrinse a rimanere parecchio tempo all’ospedale. Tuttavia, con tutta la febbre ripartii per Ancona il mio paese nativo e qui la febbre mi passò.
Finalmente ero ritornato a casa, ma non sapevo che i miei familiari mi credevano morto e che avevano già fatto celebrare la messa in mio onore.

domenica 11 novembre 2007

Seconda guerra mondiale: molti genitori costringono le loro figlie ad abbandonare la scuola per non essere importunate dai soldati

La nonna di Ruggero da bambina è stata costretta ad abbandonare la scuola perché c’erano in giro troppi soldati che avrebbero potuto importunarla… (9)

Mia nonna mi ha raccontato che a durante la IIa guerra mondiale era una bambina di nove anni e frequentava la IV elementare. Siccome la sua casa era distante dalla scuola e per arrivarci doveva camminare in mezzo ai convogli militari e a lunghe file di soldati, sua madre ha preferito non mandarla più a scuola anche perché un soldato una volta le aveva offerto dei biscotti.
Furono costretti a lasciare la loro casa che si trovava nel centro del paese per rifugiarsi in campagna da certi parenti perché le vie centrali venivano bombardate e non era sicuro viverci.
Erano giorni di grande paura e la gente veniva privata della propria libertà: ogni volta che suonavano le sirene dovevano correre nei rifugi antiaerei e c’era sempre la paura che uscendo non avrebbero ritrovato la propria casa , perché le bombe potevano distruggerla.
Da quando si erano rifugiati in campagna la vita era un po’ più tranquilla. Mia nonna non andava più a scuola e stava sempre in casa con sua madre mentre gli uomini di famiglia a volte si spostavano nelle campagne circostanti per scambiare le uova con la farina, oppure il latte con il riso, perché non era possibile andare in paese a fare la spesa e allora dovevano arrangiarsi facendo degli scambi.
Di tanto in tanto passavano truppe di soldati e gli uomini erano costretti a nascondersi per non essere reclutati a lavorare per i tedeschi, perché loro dicevano che li portavano via solo per un paio di giorni e poi invece li fucilavano. Infatti, in una casa poso distante avevano preso uno dei figli dei contadini che vi aiutavano dicendo che ne avevano bisogno per ripulire una strada dalle macerie e che appena finito sarebbe tornato. Invece quel ragazzo non fece più ritorno e dopo una ventina di giorni fu trovato morto: gli avevano sparato!...
In questo clima di terrore i giorni passavano molto lentamente, e tutti pregavano perché la guerra potesse finire al più presto.
Finalmente poi arrivarono gli americani e con loro la fine della guerra.
Mia nonna ricorda che i soldati tedeschi mentre si ritiravano, bombardavano le case dietro di loro per ritardare la marcia degli alleati, e ammazzavano anche la gente che trovavano per la strada, perché avevano perso e se la prendevano con tutti.
Poi c’erano gli americani che sfilavano per le strade e la gente si fermava e gli sbattevano le mani, loro buttavano delle tavolette di cioccolata e dei biscotti e i bambini che li raccoglievano li stringevano tra le mani ad erano felici perché per loro era come una benedizione, era la fine di un incubo.

sabato 10 novembre 2007

Cosa succedeva quando una bambina durante la guerra rimaneva sola?

Nonna Rachele rimane sola: il padre è al fronte e la mamma ammalata in sanatorio… (10)

Nel periodo della Guerra nonna Rachele ha solo 9 anni. Ecco il suo racconto:
«Avendo il padre prigioniero e la madre in sanatorio, fui sballottata prima dagli zii e dopo al collegio di Sant’Agata di Chieti.
Purtroppo una notte il collegio fu bombardato dai tedeschi: crollarono muri, soffitti; ci furono dei bambini feriti e ci terrorizzammo tutti.
Nel collegio vivevo male: senza mangiare, dormendo nel rifugio, vivendo nel terrore dei bombardamenti. Fui ricoperta da pidocchi. Un giorno andammo tutti i bambini a fare una passeggiata e passando davanti alla villa comunale di Chieti vedemmo tanti morti che i tedeschi avevano mitragliato dagli aerei. Questo per me è stato un brutto ricordo, anzi un’ossessione.
Mi ricordo quando gli sfollati invasero il collegio e quando dovevo lasciare il collegio e le suore ci prepararono degli zainetti con una fetta di pane, un po’ d’acqua, qualche indumento intimo, perché dovevamo sgombrare il collegio e non si sapeva dove saremmo andati. Fra di noi c’erano bambini anche piccolissimi.
Il 2 dicembre, Chieti fu dichiarata città aperta e così rimanemmo in collegio.
Nella mia memoria è ancora vivo il ricordo dei militari che vedevo per la prima volta nella mia vita. Dopo gli inglesi, vennero militari di tutte le razze che attraversarono la nostra penisola.
L’11 dicembre 1946 papà tornò dalla prigionia e mia madre a casa, guarita dalla tubercolosi, e, così, la nostra famiglia si ricompose».

venerdì 9 novembre 2007

Giuseppe, fatto prigioniero in India, quando parte per la guerra ha i cappelli neri, quando ritorna sono diventati bianchi!

Giuseppe, papà di Rachele, quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale si trovava volontario in Africa…. finisce prigioniero in India (11)

Giuseppe quando scoppiò la guerra aveva circa 30 anni e racconta:
«Io all’epoca mi trovavo a lavorare volontario in Africa, facevo il camionista; quando scoppiò la guerra ero a Massaia e Mussolini ci reclutò per fare la guerra in Africa contro gli inglesi.
Purtroppo ad Ambalagi fummo catturati dagli inglesi, con la resa delle armi, fummo trasferiti ad Asmara e lì ci misero nei loro campi di concentramento.
Ci spostarono in Sudan. Sempre prigionieri, ci imbarcammo a Porto Sudan e arrivammo ad Aden; attraversammo l’Oceano Indiano e arrivammo in India, dove facemmo circa 6 anni di prigionia. Eravamo rinchiusi nei recinti di reticolati, dormivamo nelle baracche di legno.
Finché visse Mussolini noi prigionieri avevamo abbastanza da mangiare. Appena fu deposto, patimmo la fame e tante altre privazioni.
Non fummo torturati, ma non vivevamo certamente bene. Qui mi ammalai di malaria e fui curato in un piccolo ospedale da campo gestito anche dai medici prigionieri.
Durante questi lunghi anni mi morì in Italia una figlia di nome Anna, che aveva 11 mesi. Le notizie da casa erano poche e brutte: mia moglie in sanatorio, mia figlia in collegio, ed io ero molto in pensiero.
Verso la fine del 1945, gli inglesi ci dissero che la guerra era finita e potevamo tornare a casa; in Italia ho trovato molta miseria. Mia moglie per mangiare durante la guerra aveva fatto 12.000 lire di debito, dovevo ricominciare tutto da capo, non avevo niente, solo la mia famiglia. La guerra mi aveva levato gli anni migliori e tutto quello che possedevo. Posso dire che sono partito con i capelli neri e sono tornato con i capelli bianchi!».

mercoledì 7 novembre 2007

Nelle case riamangono solo le donne, gli anziani e i bambini

La nonna di Paolo vive nelle campagne di Vasto e ha 17 anni quando scoppia la guerra (12)

Racconta: Nel 1943 avevo 17 anni e abitavo in campagna. Durante la guerra avevo tanta paura sia dei bombardamenti che dei soldati tedeschi, che entravano nelle nostre case armati e facevano da padroni. Prendevano tutto ciò che trovavano da mangiare, saccheggiavano le nostre cantine e minacciavano di morte se qualcuno resisteva ai loro voleri.
Tante volte i nostri genitori ci nascondevano in rifugi segreti scavati nelle vicinanze della casa oppure ci facevano sembrare vecchiette al lavoro di maglia, con fazzoletti in testa che nascondevano il nostro viso e chiaramente la nostra età per evitare le molestie dei soldati.
Tante nostre case mancavano di uomini partiti per la guerra e altri rapiti dai tedeschi.
Una volta siamo stati allontanati dalla nostra abitazione per 20 giorni dai tedeschi, perché la nostra casa doveva diventare comando tedesco per poter fronteggiare l’arrivo degli americani, in quanto le finestre si affacciano sul porto di Punta Penna.
Ci siamo allontanati ospiti di conoscenti, portando dietro provviste e indumenti.
Quando nel 1945 dal porto di Punta Penna sbarcarono gli americani, nostri alleati, le nostre condizioni sono migliorate e finalmente la tranquillità ricominciò ad esistere nella nostra vita. ricordo con piacere la notizia dell’armistizio che segnò la fine della guerra.
Oltre all’aiuto con le armi, gli americani aiutarono anche con l’apporto di viveri che in tanti paesi scarseggiavano. L’esperienza della guerra fu terribile.

martedì 6 novembre 2007

Il racconto di nonno Michele durante la Seconda Guerra Mondiale

Il nonno Michele racconta che non tutti i soldati tedeschi erano cattivi (13)

Per raccogliere notizie della seconda guerra mondiale ho intervistato mio nonno Michele che mi ha raccontato che la vita era molto difficile durante quei giorni; gli uomini si dovevano nascondere e solamente la notte potevano usare dei nascondigli, altrimenti venivano presi e deportati nei lager tedeschi. Le donne giovani erano chiuse in casa e uscivano solo le persone più anziane.
Il mio bisnonno è stato ferito alla mano da un soldato tedesco perché cercava di proteggere la sua famiglia.
Non c’era molto da mangiare in quei giorni, c’era il mercato nero; le persone che avevano i prodotti della terra per comperare carne, qualche vestito ecc… facevano “il baratto”.
Non tutti i soldati tedeschi erano cattivi. Qualcuno diventava amico della gente e se poteva l’aiutava.

lunedì 5 novembre 2007

Per i soldati i pidocchi erano un serio problema

Il nonno di Alessandro è stato mandato a combattere a Tripoli. Aveva imparato un trucco per liberarsi dai pidocchi…. (14)

Ho intervistato mio nonno che ha 87 anni e mi ha detto che nella seconda guerra mondiale ci fu una grande crisi economica, la chiusura delle fabbriche e la disoccupazione degli operai.
Molti uomini furono chiamati alle armi. Mio nonno fu mandato insieme ad altri italiani a Tripoli, in Africa, a combattere.
Molti di questi morirono e molte donne rimasero vedove e dovettero affrontare non poche difficoltà per riuscire ad andare avanti con i loro figli e con la miseria che li accompagnava.
Gli uomini fortunati che riuscirono a riabbracciare le proprie famiglie, dopo la guerra furono costretti ad emigrare e a lasciare di nuovo le loro famiglie per cercare un lavoro.
Mio nonno mi ha detto che di notte quando c’era il copri-fuoco la gente non poteva accendere la luce altrimenti venivano bombardati. Mio nonno ha ancora un vestito fatto con la stoffa di paracadute perché non c’era abbastanza stoffa.
Mio nonno ha avuto una grande infestazione di pidocchi. Se ci si voleva togliere i pidocchi, bisognava allungarsi sulla neve e grattarsi e, così, molti pidocchi si toglievano; ma la maggior parte dei pidocchi rimaneva sempre sul corpo.

domenica 4 novembre 2007

Dopo la ricerca, è importante scoprire sul luogo.....

La maestra Rina, per completare la ricerca sulla Seconda guerra mondiale, ha portato gli alunni a visitare la “Brigata Alpina Julia” di San Salvo. Inoltre i suoi scolari sono stati anche accompagnati all’Ufficio leva dello stesso comune per vedere la differenza tra i soldati di ieri e quelli di oggi. Ecco il risultato della loro ricerca:

sabato 3 novembre 2007

Alla Brigata alpina Julia di San Salvo

Visita degli alunni alla BRIGATA ALPINA JULIA di San Salvo il 21 febbraio 1989 – Resoconto: (15)

Martedì 21 febbraio siamo andati alla sezione “BRIGATA ALPINA JULIA”, il cui presidente è Ricciardi Nicola.
Da un alpino interventista abbiamo saputo che:
- Gabriele D’Annunzio con una “MAS” fece incursione a Pola e Curtoza (Curzola??)
- Nella “Brigata Alpina Julia” in tempo di pace ci sono da circa 20.000 a circa 30.000 uomini. Se ci fosse una guerra si potrebbe arrivare a circa 30.000 alpini.
- Nella 1a Guerra Mondiale si combatteva stando dentro le trincee, fu una guerra di “postazione”. Le trincee erano scavate sotto terra ad una profondità di circa m. 2,30 e si chiamavano anche “camminamenti”.
Il comandante lanciava il segnale d’assalto per conquistare la trincea nemica.
Gli alpini coprivano le “trincee” e i “camminamenti” con sacchi pieni di terra o sabbia, per ripararsi dai proiettili o per nascondere le artiglierie.
Ogni muro fatto di sacchi si chiamava “terra-pieno”.
- L’Italia nella 1a Guerra Mondiale del 1915-18 aveva circa 4.500.000 forze militari.
Dopo quella tremenda guerra ci fu una perdita di militari di circa 300.000 soldati e circa 150.000 civili.
I militari feriti furono circa 120.000.

venerdì 2 novembre 2007

Visita degli alunni presso l'Uffico Leva del Comune di San Salvo

Rilevazione presso l’Ufficio Leva: che differenza tra i militari di adesso e quelli di una volta! (16)

L’Ufficio Leva del Comune di San Salvo ci ha fatto rilevare notizie di quanti soldati partirono per la 1a e la 2a Guerra mondiale.

I nati nel 1898 partiti per la guerra mondiale furono 26.
L’unico volontario si chiamava Cavalcante Vitale.
Dopo la guerra c’era molta fame e alcuni dei nati nel 1898 emigrarono: 8 in America e 1 in Francia.
I fanti del 1898 erano 19.
Nel reparto d’assalto c’era un solo soldato, invece nella cavalleria erano 2. Nell’artiglieria da campagna c’erano due soldati; nel campo dei bersaglieri uno.
Dei nati nel 1899, 35 partirono come fanti.
Del 1901 ne partirono 15: un carabiniere e 14 fanti.
I soldati nati nel 1915 erano 37, quasi tutti richiamati alle armi.
I nati nel 1916 erano 27, quelli del 1917 erano 24, del 1918 erano 26, quelli del 1919 erano 34, del 1920 erano 42, del 1921 erano 64 soldati, del 1922, 48, del 1923 erano 31, del 1924 erano 26 e quelli del 1925 erano 25.
Tra questi soldati di San Salvo ci furono 8 disertori e un disperso e un deportato in Germania.

L’impiegato dell’Ufficio Leva, il Signor Molino Michele, ci ha fatto leggere i registi dei giovani che andavano alla visita militare; abbiamo rilevato che tra i militari di adesso e quelli di una volta c’è molta differenza. Infatti, i militari di adesso raggiungono anche m. 1,98 di altezza, mentre quelli di una volta arrivavano a malapena a m. 1,68.
I ragazzi di oggi hanno il torace non molto grosso per cui alcuni vengono rimandati a casa per insufficienza toracica.
I militari di una volta erano ben piazzati.
Sulle varie schede risulta che: la dentatura dei militari della 1a e 2° guerra mondiale era quasi per tutti sana.
I giovani di oggi hanno quasi tutti la dentatura guasta.

L’ultimo podestà del dopo-guerra fu De Vito Gaetano, che amministrò il Comune di San Salvo dall’11 novembre 1943 al 13 novembre 1945.
Il primo Commissario Prefettizio fu Di Iorio Ercole, che amministrò dal 14 novembre 1945 al 12 luglio 1946.
Finalmente, dopo la caduta del fascismo, Mazzocchetti Ugo fu il primo Sindaco eletto.

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