lunedì 12 novembre 2007

Arruolato con i tedeschi, Armando si ritrova fuggiasco in Albania e Macedonia

Nonno Armando e le sue vicissitudini in Albania e Macedonia durante il secondo conflitto mondiale (8)

Nel settembre del 1940 stavo in Albania per la guerra contro i greci. Il 28 settembre del 1943, ci fu la resa dell’Italia e io mi arruolai con i tedeschi e facevo l’autista. Il 22 dicembre dello stesso anno, stavo in Macedonia con tanta neve e ghiaccio; i tedeschi mi chiamarono al giuramento per Hitler, altrimenti mi avrebbero mandato al campo di concentramento. Fui quindi costretto a giurare e così feci il servizio con i tedeschi in Albania e Macedonia, impegnato nei trasporti.
Il 26 agosto del 1946 feci una discussione con un sottufficiale tedesco che mi mise di guardia, feci il turno di notte e mi misi a dormire nel camion. Aspettai che il sottufficiale smontasse dal servizio e chiamasse un altro tedesco; all’una di notte gli lasciai il moschetto e gli dissi che avevo finito il servizio. Lì vicino c’era la stazione ferroviaria. Salii su un vagone e mi nascosi per non farmi vedere dalle guardie che controllavano il treno. Il treno partì: era diretto a Scoppia in Macedonia. Mi fermai a Scoppia per due giorni: giravo per la città con la fascia di riconoscimento tedesca per non farmi riconoscere che ero scappato.
Il 28 agosto salii su un treno sul quale c’era la polizia tedesca. Scesi a Bitoli (Macedonia) e volevo andare al paese dove avevo fatto il giuramento tedesche perché lì c’erano degli amici, ma avevo i tedeschi alle calcagna, allora decisi di arruolarmi nei partigiani della “Brigata Macedone” e feci un altro giuramento. sono rimasto 15 giorni a combattere tra le montagne contro i bulgari e dopo sono scappato. dopo due-tre giorni fui catturato dalla polizia tedesca e incolpato di spionaggio bulgaro. Mi misero in galera a Bitoli in una camera scura con tre amici. Dopo 8 giorni ci fecero uscire, pensammo che ci fucilassero, invece ci fecero salire su una camionetta e mi riportarono in Albania. Mi riportarono al comando dove ero scappato, mi fecero un giorno e mezzo di interrogatorio e rapporto e mi dissero che il giorno dopo sarei stato fucilato e mi rimisero in carcere.
Il giorno dopo mi misero a scavare, insieme ad altri, le buche per mettere i morti. Stavamo tutti a scavare mentre i tedeschi ci sorvegliavano con il mitra puntato. Verso le 11 dissi ad una guardia che dovevo andare al bagno. Mi disse di andare nel vicino campo di granoturco. Approfittai di una sua distrazione e mi diedi a una fuga disperata. fui fortunato perché lì vicino c’era un ponte di un canale; vi passai sotto e più in là trovai la boscaglia. Arrivai al ponte più alto del bosco e in lontananza vidi una casa di legno. Dalla casa uscivano delle persone con i mitra spianati che mi accerchiarono; pensai che mi avrebbero ammazzato, invece riconobbi che erano partigiani albanesi e gridai di essere italiano, mi domandarono da dove venivo e dissi che ero scappato dai tedeschi. Mi fecero entrare nella casetta dove c’erano altri partigiani e mi fecero mangiare pane e mosto cotto. Mentre mangiavo mi fecero vedere un moschetto arrugginito e mi dissero che alla sera dovevamo andare ad attaccare i tedeschi. Ma quando i tedeschi passarono i partigiani ebbero paura e non spararono. Era il 25 settembre del 1944. Dormivamo per terra, faceva freddo e dovevamo camminare tra le montagne. Mi facevano male le gambe e non ce la facevo più. Allora mi rifugiai in un piccolo paese di montagna nella casa di un albanese che allevava pecore. Mi davano da mangiare fagioli, ma erano tutti acqua e sale e mentre mangiavo, la moglie del partigiano mi ammazzava i pidocchi con le mani. Lì conobbi un italiano toscano che si trovava in quel posto da un anno, decidemmo di scappare insieme. Dissi al padrone che andavamo a fare una passeggiata sulle montagne e me ne andai. Camminammo lungo un fiume e trovammo delle persone gentili che ci diedero da mangiare pane e granturco. La notte trovammo ospitalità in una casa vicina a questo fiume. Attraversammo il fiume a nuoto. arrivammo in un altro villaggio albanese dove non c’era la luce, ma avevano una caldaia che gli doveva procurare la corrente ma gli albanesi non erano in grado di farla funzionare. Insieme al mio amico la riparammo e così demmo la luce in quel piccolo villaggio. Ma non restai neanche in quel paese e, dopo otto giorni, me ne andai da solo perché il mio amico non volle venire con me.
Mi riempii le tasche di castagne e me ne andai verso la Macedonia. Risalivo la montagna solo con un paio di scarpe da ginnastica (?) e incontravo albanesi che scappavano gridando: «ci ammazzano!». Mi dissero di non proseguire perché mi avrebbero ammazzato. ma io non gli diedi retta e continuai a camminare verso la Macedonia. Vedevo le case che bruciavano. due cani mastini si avventarono su di me ma li uccisi con un bastone. Sentivo sparare. Non sapendo dove andare mi rifugiai in un pagliaio in mezzo al granturco. Sentivo i colpi di fucile da ogni lato. Verso l’una di notte una mucca si mise a mangiare vicino a me, mi misi a piangere.
Trovai un cappellino albanese e me lo misi in testa, chiesi a uno slavo la strada per Scoppia e ci incamminammo insieme. Per la strada vedevo mucchi di morti ammazzati dagli albanesi, incontrammo due slavi che mi domandarono se ero albanese, gli dissi di no e mi dissero di buttare il cappello.
Arrivato a un paese vicino, chiesi di poter lavorare. Accettarono di farmi lavorare in un’officina. Mi facevano scaricare in mezzo alla neve, faceva tanto freddo. Un giorno vidi arrivare i partigiani che mi avevano ospitato nella casetta di montagna. Mi raccomandarono di non farmi vedere dal comandante altrimenti mi avrebbe punito e io cercai di stargli sempre lontano.
Da quel paese mi trasferirono a Scopia per inviarmi in un campo di concentramento. Io sentii tutto e scappai di nuovo in mezzo alla neve, con le scarpe rotte. Ritornai verso l’Albania. Avevo i capelli e i baffi ghiacciati, attraversai il fiume con un metro di acqua glaciale credendo di morire, e invece non ho preso neanche un raffreddore.
Andai a Cossopolo dove c’era la ferrovia. Un giorno scoppiarono molte bombe e morirono molti italiani. Per mia fortuna proprio quel giorno non ero lì a lavorare perché avevo detto di sentirmi male. Mi misero a lavorare in un’officina dove incontrai un italiano che mi conosceva e che credeva che i tedeschi mi avessero ammazzato.
Il capo officina era slavo, a un tedesco dava il sapone per lavarsi e a noi no. Allora un soldato di Brindisi gli diede 3-4 pugni; un romano aveva rotto la macchina che doveva aggiustare; io avevo risposto a un superiore e, così, ci presero e ci portarono in carcere.
Prima di entrare in carcere ci tagliarono i capelli: ci rimanemmo 7 giorni e 7 notti. Il 7 maggio del 1945 ci fu l’armistizio. Spararono i cannoni. Ci portarono davanti al loro giudice che ci interrogò; fuori ci aspettavano i soldati per spararci, ma il maggiore fece ammazzare il soldato romano e liberò me e il brindisino.
Tentammo la fuga e incontrammo i tedeschi. Il 25 luglio ci mandarono a piedi a Scoppia per rimpatriare. Salii su un treno che mi riportava in Italia. arrivati a Bologna mi prese una febbre che mi costrinse a rimanere parecchio tempo all’ospedale. Tuttavia, con tutta la febbre ripartii per Ancona il mio paese nativo e qui la febbre mi passò.
Finalmente ero ritornato a casa, ma non sapevo che i miei familiari mi credevano morto e che avevano già fatto celebrare la messa in mio onore.

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